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LA SCOSSA SCASSA

LA SCOSSA SCASSA

EDUARDO ALAMARO ha deciso di intraprendere un viaggio-inchiesta nell’ IRPINIA del dopo-terremoto. Si è ricostruito tanto … hanno lavorato le grandi firme nazionali dell’architettura … i risultati ? Non se ne è mai parlato, una sorta di rimozione “culturale”.
La PresS/Tletter di questa settimana (n. 20- 2007), che ricordo in Italia è letta da circa 50.000 professionisti, tecnici e non, ed ha una diffusione superiore sia a molti quotidiani che a tante riviste di settore patinate e stampate, ha deciso di seguire ALAMARO in questo viaggio.
La prima tappa è LIONI dove ho accompagnato Eldorado insieme a Rino Sorrentino che qui saluto; il resoconto segue in evidenziato.
Prossimo reportage su PresS/Tletter: TEORA. Sabato 16 giugno dovremmo essere a Conza e Bisaccia con pausa pranzo da “zi Luigi”; chi vuole partecipare risponda alla presente. Se vi annoio con le mie mail scrivetemelo. Saluti affettuosi, angelo verderosa

PresS/Tletter n. 20- 2007 http://www.prestinenza.it/ http://presstletter.com/
Nella rubrica INTERMEZZO, Edoardo Alamaro ci parla di:

La scossa scassa / 1 (un giorno da Lioni)
Che domenica indimenticabile, santificata al Signore delle scosse, al Dio tellurico che tutto move & Smove. La scossa scassa e poi si batte cassa! Sono infatti di nuovo nell’Irpinia post/sismica, la post/Irpinia nata dalla “grande botta” del 23 novembre 1980 (e chi se la

ricorda più?), ricca di architetture spesso dovute a grandi e piccole firme, ad archistar mancate e/o locali; nel complesso un patrimonio edilizio a suo tempo molto parlato e s/parlato, un cratere (di parcelle) oggi dimenticato, sostanzialmente non indagato (a parte la magistratura dell’Irpiniagate), una rimozione collettiva, forse una perdita (di tempo) critica. Ma noi, sfaccendati interSmezzatori d’assalto, abbiamo tempo da perdere e ci “sfiziamo” a ri/vedere queste opere sociali terremotate, ormai sufficientemente collaudate dall’uso, usufruendo peraltro di una guida “indiana” color Verderosa, sempre sia lodata, mai lordata. Iniziamo il tour dal “cuor di Lioni”, dalla sua moderna piazza, assolata e deserta, un vuoto interrogativo metafisico, un cratere permanente di cinquemila metriquadri, una specie di piazza del Plebiscito senza plebiscito partenopeo – oggetto di un vivace scambio d’opinioni su questo foglio on line (cfr. PresS/Tletter nn. 23 e 24/2006, ndr) – con in cima un solenne e classico tempio, anzi un santuario, quello di San Rocco, edificato su progetto del grande “accademico d’Italia” Giovanni Muzio, credo l’ultima sua opera, dono personale al parroco, suo amico, Padre Roberto, francescano, col quale parlo simpaticamente. Originario di Paduli nel beneventano, il paese di Mimmo Paladino, il frate mi dice che aveva conosciuto Muzio in Terrasanta; che l’illustre architetto gli offrì il progetto di ricostruzione della chiesa post/sisma, un’opera intensa “da contemplare prima che da usare”; che per questo motivo era sceso giù da Milano ed era stato tre giorni umilmente in una roulotte, al pari degli altri terremotati (quei bravi architetti d’una volta che ancora progettavano vedendo e vivendo i luoghi “dal vero”!); che poi Muzio era morto nel 1982 e che suo figlio concesse “il placet” per la continuazione dell’opera no/profit; che si è cercato di rispettare in tutto e per tutto il progetto del Maestro, la grande chiesa a pianta circolare (che però “non circola”, anzi non quadra), un Muzio tardo, non più Scevola, ma che piuttosto scivola dal cuor di Lioni d’oggi pulsante. Per Padre Roberto la fedeltà esecutiva al progetto è il segno concreto del “rispetto” dovuto al Maestro, all’amico, all’architetto più “francescano” del novecento; e ciò contrariamente a quanto avvenuto per altre chiese del post/sisma irpino (oggetto peraltro, a suo tempo, di una mostra con relativi plastici e grafici, mi dice), ove è palese la distanza (anche di tempo) che corre tra il progetto e la realizzazione dell’opera, talvolta un vero e proprio tradimento, se non traviamento. Gli obietto che spesso le difficoltà della realizzazione stanno “nel manico”, e che cioè il progetto è già carente ed astratto in sé, improbabile, “bello” 1/100 ma paralitico in scala 1/10 e ancor peggio avvicinandosi “al vero”; come la parola del Vangelo che rimane ferma sull’altare, che non s’incarna, e la nostra è un’arte applicata, una religione pratica (e anche un po’ puttana e molto contaminata). Sembra convinto, annuisce, ma poi deve celebrare messa, andiamo via, saluti e baci accademici all’eroico Muzio Scivola. Attraversiamo il vuoto interrogativo della piazza (con muro loggiato) e andiamo di fronte, da don Tarciso, un padovano sceso dal cielo al Sud con gli aiuti provvidenziali del terremoto che poi qui s’è impiantato da parroco, molto attivo ed amato. Infatti è simpatico ed estroverso, con lui non puoi non ascoltare la Messa; ci dicono che è un grande animatore, il suo edificio di culto (la chiesa di Santa Maria Assunta) è modesto e, diciamo la verità, pure bruttino e cafunciello, ma è pieno di gente che sembra felice e partecipe, che lo chiama mentre scambio con lui quattro chiacchiere non inutili. Mi dice che, nel tempo del post/sisma, si oppose fieramente ad un progetto di Riccardo Dalisi “il partecipativo”, che però in quel caso pare che non partecipò molto coi Lioni locali (che fan rima con guagLioni e con i due CastigLioni, semmai). Roboanti e tipiche del tempo erano le intenzioni di progetto. Scrisse infatti su autorevole rivista (“Spazio e Società” n. 19, settembre 1982, pp. 72 e sgg., ndr): “Bisogna partire dal presupposto che ogni popolazione ha in sé un potenziale di recupero, la capacità di ricostruire, di rifarsi dal trauma dell’evento sismico. In altre parole le popolazioni devono autogestirsi l’emergenza …” ma di fatto (e fatti architettonici) anche “Totocchio” calò dall’alto la sua suggestiva idea di progetto (involucro concettuale trasparente, interno con frammenti architettonici dada, ..) che fu percepita sostanzialmente come museale ed astratta: una sorta di memorial, di reliquario autocelebrativo, invivibile e impraticabile per il culto “pratico” della gente in carne, ossa e spirito. Fu questo il giudizio inappellabile espresso dai parrocchiani e dal prete che a loro volta forse volevano un impossibile “dov’era e com’era” (e che la proposta dalisistrata & spostata in avanti di fatto radicalizzò all’indietro). Che peccato, sarebbe stato un bel confronto in piazza: Muzio/Dalisi, classico/anticlassico, permanenza/permanente e/o messa in piega dell’architettura, gran coiffeur! Basta, dobbiamo interrompere, anche qui c’è la Messa, in contemporanea con quella del Santuario “di sopra”, due al prezzo di una, andiamo via, grazie fecondo don Tarcisio, a presto! Saliamo in macchina, c’è tanta architettura (ed edilizia) da vedere nel cuor di Lioni (mi indicano al volo qualche opera, ma non c’è tempo per scriverne, un’altra volta, LPP “multa”, già ho sforato) e ci dirigiamo a Teora, il paese/presepe aggrappato sulla collina che diede i natali al quònnam Agostino Renna, che qui operò nel post/terremoto, “tendenziosamente” con Giorgio Grassi. Stop, fine prima puntata. Conservate il biglietto, il seguito alla prossima, forse. Premio a sorpresa per chi seguirà tutte le puntate terremontate.

Saluti post/irpini, Eduardo Alamaro (Eldorado)
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